Claudio Stella |
La
ventura casuale di un concorso letterario mi ha permesso di accostarmi
all’opera di Angelo Coco, poeta già affermato anche se poco noto, vincitore di
diversi premi in varie parti d’Italia. Già dalla prima lettura ho percepito una
felice sintonia con i suoi versi e ne ho tratto, soprattutto, la convinzione di
trovarmi di fronte un autore maturo, dotato di una ben precisa “cifra” poetica.
Ci
sono molteplici luoghi nella poesia di Coco tanto da poterla definire una
poesia itinerante, che si nutre e si plasma di queste mutevoli esperienze
spaziali. Così ci vediamo trasportati da Firenze a Venezia, da Roma a Bologna,
da Berlino alle Highlands scozzesi, come se ci trovassimo dentro il memoriale
di un instancabile viaggiatore.
È,
dunque, una poesia che si confronta con i luoghi delle città, con le chiese, le
strade, le piazze, i volti che il poeta incontra. Ma di tutto questo mutevole
paesaggio esteriore a noi giungono, attraverso la poesia, solo immagini
deformate dallo specchio dell’anima in cui si sono immerse. Non c’è realismo,
mai, nella poesia di Coco, neppure quando l’andamento si fa molto narrativo e
la sua attenzione sembra indugiare sui dettagli molto minimali della
quotidianità: la realtà che Coco ci rappresenta è quella di un paesaggio
interiore, di uno spazio psichico in cui gli oggetti e i volti esterni sono
stati totalmente assorbiti, rimodellati con la materia delle emozioni, delle
pulsioni, che popolano l’anima del poeta. Sembra dunque che l’esperienza del
viaggio costituisca un pretesto - o forse la scintilla – da cui scaturisce
l’avventura della forma poetica.
La
poesia di Coco non è di facile accesso, il suo linguaggio non ricerca l’effetto
di superficie, l’abbraccio accattivante, un’immediata empatia emotiva. Ma egli,
allo stesso modo, rifugge da ogni compiacimento ermetico, la sua parola è
pregna, esprime al contempo ricerca e trasmissione di senso. Montalianamente,
potremmo dire che la sua è più poetica dell’oggetto che della parola. Ma più
che Montale, mi sembra di veder baluginare, a tratti, nelle sue poesie, tracce
della densità etica e intellettuale che contraddistingue i versi di Mario
Luzi, soprattutto perché anche in Coco è
presente una forte tensione metafisica. Ad esempio, in “Tre storie fiorentine”, i componimenti che aprono la raccolta, si
evidenzia una dialettica tra il tempo della storia, definito in modo preciso
attraverso il riferimento ad eventi drammatici come l’alluvione di Firenze del
1966, e il tempo dell’arte, che riposa nella sua consolante immobilità. E
proprio questa imperturbabile fissità, sembra essere l’approdo evocato dal
poeta, perché essa ci riscatta dalla
fuggevolezza dell’attimo (“Vedi,
figliuolo, / noi siamo come una di quelle foglie / che oggi ti paiono ridere
immortali…”), perché prefigura la sacralità di un tempo ”altro”, che è quello dell’eterno.
Il
linguaggio poetico di Coco fluisce in modo denso e compatto, si distende
attraverso eleganti movenze narrative ma, talora, si condensa in improvvise
folgorazioni liriche, in squarci di repentine epifanie. E questo conferisce ai
suoi componimenti una felice imprevedibilità e un andamento a tratti
sussultorio. E sempre, leggendo la sua opera, si ha la sensazione di trovarsi
di fronte a un poeta maturo, consapevole dei propri mezzi espressivi: il suo
linguaggio non cede mai alla tentazione dello sfogo emotivo o esistenziale, ma
è sostenuto da una rigorosa ricerca formale. Esso è il sedimento di un percorso
creativo vigile e autenticamente vissuto. È un cammino in divenire che, sono
certo, non mancherà di donarci altri frutti preziosi.
Claudio Stella
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