domenica 27 maggio 2012

Dalla postfazione al volume "Tre storie fiorentine e altre storie" (ViaIndustriae Edizioni, Foligno, aprile 2012), vincitore del premio di poesia "Corinna Angelucci"

Claudio Stella
La ventura casuale di un concorso letterario mi ha permesso di accostarmi all’opera di Angelo Coco, poeta già affermato anche se poco noto, vincitore di diversi premi in varie parti d’Italia. Già dalla prima lettura ho percepito una felice sintonia con i suoi versi e ne ho tratto, soprattutto, la convinzione di trovarmi di fronte un autore maturo, dotato di una ben precisa “cifra” poetica.
Ci sono molteplici luoghi nella poesia di Coco tanto da poterla definire una poesia itinerante, che si nutre e si plasma di queste mutevoli esperienze spaziali. Così ci vediamo trasportati da Firenze a Venezia, da Roma a Bologna, da Berlino alle Highlands scozzesi, come se ci trovassimo dentro il memoriale di un instancabile viaggiatore.
È, dunque, una poesia che si confronta con i luoghi delle città, con le chiese, le strade, le piazze, i volti che il poeta incontra. Ma di tutto questo mutevole paesaggio esteriore a noi giungono, attraverso la poesia, solo immagini deformate dallo specchio dell’anima in cui si sono immerse. Non c’è realismo, mai, nella poesia di Coco, neppure quando l’andamento si fa molto narrativo e la sua attenzione sembra indugiare sui dettagli molto minimali della quotidianità: la realtà che Coco ci rappresenta è quella di un paesaggio interiore, di uno spazio psichico in cui gli oggetti e i volti esterni sono stati totalmente assorbiti, rimodellati con la materia delle emozioni, delle pulsioni, che popolano l’anima del poeta. Sembra dunque che l’esperienza del viaggio costituisca un pretesto - o forse la scintilla – da cui scaturisce l’avventura della forma poetica.
La poesia di Coco non è di facile accesso, il suo linguaggio non ricerca l’effetto di superficie, l’abbraccio accattivante, un’immediata empatia emotiva. Ma egli, allo stesso modo, rifugge da ogni compiacimento ermetico, la sua parola è pregna, esprime al contempo ricerca e trasmissione di senso. Montalianamente, potremmo dire che la sua è più poetica dell’oggetto che della parola. Ma più che Montale, mi sembra di veder baluginare, a tratti, nelle sue poesie, tracce della densità etica e intellettuale che contraddistingue i versi di Mario Luzi,  soprattutto perché anche in Coco è presente una forte tensione metafisica. Ad esempio, in “Tre storie fiorentine”, i componimenti che aprono la raccolta, si evidenzia una dialettica tra il tempo della storia, definito in modo preciso attraverso il riferimento ad eventi drammatici come l’alluvione di Firenze del 1966, e il tempo dell’arte, che riposa nella sua consolante immobilità. E proprio questa imperturbabile fissità, sembra essere l’approdo evocato dal poeta,  perché essa ci riscatta dalla fuggevolezza dell’attimo (“Vedi, figliuolo, / noi siamo come una di quelle foglie / che oggi ti paiono ridere immortali…”), perché prefigura la sacralità di un tempo ”altro”, che è quello dell’eterno.
Il linguaggio poetico di Coco fluisce in modo denso e compatto, si distende attraverso eleganti movenze narrative ma, talora, si condensa in improvvise folgorazioni liriche, in squarci di repentine epifanie. E questo conferisce ai suoi componimenti una felice imprevedibilità e un andamento a tratti sussultorio. E sempre, leggendo la sua opera, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un poeta maturo, consapevole dei propri mezzi espressivi: il suo linguaggio non cede mai alla tentazione dello sfogo emotivo o esistenziale, ma è sostenuto da una rigorosa ricerca formale. Esso è il sedimento di un percorso creativo vigile e autenticamente vissuto. È un cammino in divenire che, sono certo, non mancherà di donarci altri frutti preziosi.

Claudio Stella


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