sabato 1 settembre 2012



da GAZZETTA DEL SUD di giovedì 30 agosto 2012

venerdì 8 giugno 2012

Considerazioni al margine del premio "Corinna Angelucci"

Tre storie fiorentine e altre storie
(ViaIndustriae Edizioni, Foligno)
Ora che la tensione per la presentazione di un nuovo libro è passata, la riflessione su quei momenti si fa più pacata e tutto assume un significato diverso. Ci si rende conto di cosa significhi aver vinto la prima edizione non di un premio letterario qualsiasi ma del “Corinna Angelucci”, un omaggio, prima ancora che ad una poetessa scomparsa giovanissima, ad una donna dalle idee e dalla forza inesauribili che è diventata punto di riferimento culturale insostituibile in una parte di quella fantastica terra d’Umbria dove anche dal silenzio più profondo può scaturire il fragore di un indescrivibile coinvolgimento emotivo.

Tre storie fiorentine e altre storie”, raccolta nata nel ristretto giro di appena due mesi a ridosso -coincidenza casuale e fortunata - della data di scadenza per la partecipazione al premio, e nella quale sono racchiuse le alchimie fascinose delle esperienze di un viaggiatore più errante dentro le geografie dei propri sentimenti che non in quelle dei luoghi attraversati, traccia il solco - dalle tematiche al formato editoriale - per seminare le idee di un progetto che gli organizzatori - Lucia Genga, sensibile madre di Corinna, in testa a tutti - intendono portare avanti negli anni ed estenderlo ai centri vicini a Trevi.

Le premesse ci sono per ben sperare nella continuità e le ho viste nelle due occasioni - consegna del premio e presentazione del libro - che mi hanno dato la possibilità di confronto con l’affetto, la curiosità e l’interesse dei numerosi convenuti all’iniziativa nella quale anche il comune di Trevi crede, avendo curato l’edizione del volume.

Il successo di un’iniziativa ritengo che si debba vedere dal segno che esso sarà capace di lasciare nelle persone al di là del puro momento emotivo che il ricordo di Corinna evoca.

Con Trevi, con gli amici che qui ho conosciuto grazie a questo premio e con un’opera pittorica conservata nella Pinacoteca della cittadina umbra, ho un conto in sospeso, poeticamente parlando, che spero di saldare prima possibile.


domenica 27 maggio 2012

Dalla postfazione al volume "Tre storie fiorentine e altre storie" (ViaIndustriae Edizioni, Foligno, aprile 2012), vincitore del premio di poesia "Corinna Angelucci"

Claudio Stella
La ventura casuale di un concorso letterario mi ha permesso di accostarmi all’opera di Angelo Coco, poeta già affermato anche se poco noto, vincitore di diversi premi in varie parti d’Italia. Già dalla prima lettura ho percepito una felice sintonia con i suoi versi e ne ho tratto, soprattutto, la convinzione di trovarmi di fronte un autore maturo, dotato di una ben precisa “cifra” poetica.
Ci sono molteplici luoghi nella poesia di Coco tanto da poterla definire una poesia itinerante, che si nutre e si plasma di queste mutevoli esperienze spaziali. Così ci vediamo trasportati da Firenze a Venezia, da Roma a Bologna, da Berlino alle Highlands scozzesi, come se ci trovassimo dentro il memoriale di un instancabile viaggiatore.
È, dunque, una poesia che si confronta con i luoghi delle città, con le chiese, le strade, le piazze, i volti che il poeta incontra. Ma di tutto questo mutevole paesaggio esteriore a noi giungono, attraverso la poesia, solo immagini deformate dallo specchio dell’anima in cui si sono immerse. Non c’è realismo, mai, nella poesia di Coco, neppure quando l’andamento si fa molto narrativo e la sua attenzione sembra indugiare sui dettagli molto minimali della quotidianità: la realtà che Coco ci rappresenta è quella di un paesaggio interiore, di uno spazio psichico in cui gli oggetti e i volti esterni sono stati totalmente assorbiti, rimodellati con la materia delle emozioni, delle pulsioni, che popolano l’anima del poeta. Sembra dunque che l’esperienza del viaggio costituisca un pretesto - o forse la scintilla – da cui scaturisce l’avventura della forma poetica.
La poesia di Coco non è di facile accesso, il suo linguaggio non ricerca l’effetto di superficie, l’abbraccio accattivante, un’immediata empatia emotiva. Ma egli, allo stesso modo, rifugge da ogni compiacimento ermetico, la sua parola è pregna, esprime al contempo ricerca e trasmissione di senso. Montalianamente, potremmo dire che la sua è più poetica dell’oggetto che della parola. Ma più che Montale, mi sembra di veder baluginare, a tratti, nelle sue poesie, tracce della densità etica e intellettuale che contraddistingue i versi di Mario Luzi,  soprattutto perché anche in Coco è presente una forte tensione metafisica. Ad esempio, in “Tre storie fiorentine”, i componimenti che aprono la raccolta, si evidenzia una dialettica tra il tempo della storia, definito in modo preciso attraverso il riferimento ad eventi drammatici come l’alluvione di Firenze del 1966, e il tempo dell’arte, che riposa nella sua consolante immobilità. E proprio questa imperturbabile fissità, sembra essere l’approdo evocato dal poeta,  perché essa ci riscatta dalla fuggevolezza dell’attimo (“Vedi, figliuolo, / noi siamo come una di quelle foglie / che oggi ti paiono ridere immortali…”), perché prefigura la sacralità di un tempo ”altro”, che è quello dell’eterno.
Il linguaggio poetico di Coco fluisce in modo denso e compatto, si distende attraverso eleganti movenze narrative ma, talora, si condensa in improvvise folgorazioni liriche, in squarci di repentine epifanie. E questo conferisce ai suoi componimenti una felice imprevedibilità e un andamento a tratti sussultorio. E sempre, leggendo la sua opera, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un poeta maturo, consapevole dei propri mezzi espressivi: il suo linguaggio non cede mai alla tentazione dello sfogo emotivo o esistenziale, ma è sostenuto da una rigorosa ricerca formale. Esso è il sedimento di un percorso creativo vigile e autenticamente vissuto. È un cammino in divenire che, sono certo, non mancherà di donarci altri frutti preziosi.

Claudio Stella


ISOLATO 392. L'omaggio di un caro amico che non c'è più

Renzo Gherardini
Caro Angelo,

bello, il libro: bello per la sua compattezza, la compattezza della vita, con le sue improvvise diversità, mai però in contraddizione, sì, momenti ulteriori, se lontani l’uno dall’altro, messaggi che si integrano, rendendo più vasta la pagina, cioè la realtà. Si potrebbe citare a dovizia; basta aprire il libro e la felice sorpresa: come nel caso de: “L’altra metà della strada ha un sapore / di ritorno, dalla campagna all’imbrunire, / sulla pietra, nel battesimo della pioggia lenta, / di ciò che studiammo negli anni dell’adolescenza”. Spazio e tempo congiunti. Fino alla conclusione, bellissima: “Mia madre, stanca saliva la mano / a tracciare il volto di un figlio / e pensava che a guardare oltre la ringhiera / forse, nel campo, avrebbe rivisto la rosa”. E’ un libro in cui l’autobiografia diventa storia di un luogo, l’emozione singola, privata, trasmette il sapore, il colore di un paesaggio generale, con improvvise aperture su scene di una verità immediata, vissuta nello sguardo e nella percezione della vita al suo primo nascere: “…i tenui fruscii negli appartamenti / scivolavano tra le pareti con la leggerezza / dei fantasmi -quelli che il signor Giulio / materializzava ogni volta che il frastuono / del vociare lambiva le lenzuola stese / al balcone…
E poi l’infinità delle cose che pullulano in ogni poesia, cose da cui spuntano situazioni che si rimandano l’una all’altra come accade nella realtà, e che si spengono, ma senza la nostalgia di un improvviso disegno, una scomparsa naturale come scompaiono naturalmente le immagini della realtà, nella vita.
Qui, tutto è provvisorio e tutto è necessario, si compone la sequenza dei momenti creando la necessità dei giorni, come i singoli particolari dei paesaggi ne creano un’infinita continuità.
Anche fatti assai lontani ricorrono, remoti nel tempo ma così vivi nella memoria “come fosse ieri” “…nella sterminata campagna della Linera -era l’otto maggio del millenovecentoquattordici- / i tralci di vite spiantati / il paesaggio della casa, non più percorso dal vociare, / percosso dal sussulto della terra”.
Nella verità del linguaggio gli accadimenti anche più straordinari assumono l’aspetto della più arresa perennità: “Le voci dentro tornavano sotto forma di pianto”.
Vorrei insomma dire, il passaggio della vita, in tutta la sua continua e contigua presenza “…fuori di ogni secolo, in un minuto, / in una storia, ciò che rimane visibile / è la sorgente che attraversa lenta la montagna. / Poche cose cambiate, sfiorite le piante in giardino, / rinsecchite come ai tempi della guerra / nello sperduto rifugio oltre il fiume.
Voce e silenzio s’identificano: in una loro miracolosa continuità. Un libro costantemente presente, ripeto.

Un carissimo saluto e un augurio.

Firenze, 30 dicembre 2009.
Renzo Gherardini